La riflessione di Chiaramonte (Adoa)
«Questo periodo ha dimostrato al mondo quanto le relazioni di cura siano la base su cui poggia tutta la società: gli ospedali strapieni e senza mezzi hanno fatto perno sulle strutture assistenziali per anziani e diversamente abili per non collassare; la scuola si è appoggiata sulle famiglie; anziani, bambini e persone fragili hanno resistito solo grazie alle piccole comunità domestiche, che hanno riscoperto tutto il loro valore sociale, pastorale, culturale ed economico». Sintetizza così, Tomas Chiaramonte, segretario generale di Adoa (Associazione diocesana opere assistenziali), i duri mesi che ci stiamo la-
sciando alle spalle. «Mesi di lotta contro un male più grande di noi, in prima linea, ci hanno sferzato e profondamente cambiato: come marinai nella tempesta ci hanno unito e fatto comprendere su chi possiamo contare davvero – prosegue –. Hanno reso evidente che l’economia senza la famiglia, le comuni-
tà locali e il Terzo settore non ripartirà, perché il Covid-19 non può essere una parentesi che si apre e si chiude per tornare a essere quel che eravamo: è uno shock globale dal quale far partire, tutti insieme e con i fatti, un nuovo umanesimo».
La pandemia ha colpito duramente le generazioni più anziane, ha privato di funerali tanti nonni, ha reciso perfino gli ultimi gesti di conforto tra familiari e morenti, nel periodo di picco dell’emergenza. È emerso forte l’aspetto del prendersi cura di chi soffre, che le realtà aderenti all’Adoa conoscono bene. «Tantissimi uomini e donne nelle residenze per anziani e negli ospedali hanno lottato senza sosta contro la paura, la malattia, la morte, anche quando i mass media davano un’immagine angosciante dei luoghi di cura – sottolinea Chiaramonte –. Nonostante tutto, hanno continuato a fare il proprio dovere, spesso senza supporti adeguati, col sorriso di chi sapeva che anche la serenità è cura, anche l’amore e l’affetto sono una medicina. I morti del Covid-19 li hanno seppelliti gli operatori socio-sanitari, gli infermieri, i medici, i sindaci e i sacerdoti che, pregando sui loro ultimi giacigli o sulle loro tombe, sono diventati figli, padri e madri, portando l’umanità intera al capezzale di ciascuno di loro».
La pandemia ha fatto luce su una parola che la società negli ultimi decenni ha sempre considerato tabù: la morte. Ci siamo riscoperti tutti fragili. «La caduta del “mito dell’autosufficienza” è da anni al centro delle riflessioni bioetiche e la vulnerabilità è uno dei principi cardine: è la dimensione del limite intrinseco della condizione umana e l’oggetto di un appello morale a prendersi cura di chi è fragile, che dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni della nostra società». Tanto più che, in futuro, ci sarà bisogno di maggiori servizi per la popolazione anziana e occorreranno quindi politiche di welfare intelligenti. «Ci auguriamo solo fatti – conclude –. Ciò che più ci ha fatto arrabbiare in questi mesi sono state le bugie: la distanza siderale tra ciò che sentivamo e quello che accadeva nella realtà». [A. Val.]